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GAM: Settembre, Andiamo

GAM: In una valle ai piedi della catena montuosa Teton Range, la Federal Reserve di Kansas City organizza dal 1978 il simposio che nel tempo è diventato uno degli appuntamenti finanziari più rilevanti dell’anno.


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A cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR


All’inizio era un evento economico locale, a Jackson Hole gli economisti facevano il punto sul commercio globale dei prodotti agricoli, componente rilevante dell’economia del Mid West. Il salto verso la notorietà avvenne nel 1982.

Il capo della Federal Reserve di Kansas City, Roger Guffey, intitolò il seminario di quell’anno “Questioni di Politica Monetaria negli anni ’80” e invitò a parlare Paul Volcker. Il discorso del presidente della Fed fu incisivo, Volcker entrò nei dettagli della sua strategia che avrebbe avviato una nuova era finanziaria.

Da allora la partecipazione del presidente della Fed divenne una presenza costante, nel 2010 Ben Bernanke fece conoscere il suo parere favorevole a un secondo giro di “Quantitative Easing”, nel 2020 Jerome Powell annunciò l’aggiustamento della politica monetaria a un regime di inflazione media. L’anno scorso la durezza del discorso di Powell innescò il crollo dei mercati.

Per i mercati finanziari, la campanella di fine delle vacanze trilla a Jackson Hole.

Quest’anno l’appuntamento dei banchieri centrali nel Parco Nazionale del Gran Teton non ha registrato momenti particolarmente significativi ma il discorso di Powell era comunque atteso perché l’economia americana attraversa una fase delicata.

Il rallentamento dell’inflazione va di conserva con il rallentamento dell’attività economica, il pil americano del secondo trimestre è stato rivisto al ribasso, il mercato del lavoro comincia a entrare in tensione (i posti di lavoro disponibili sono poco più di otto milioni, il livello più basso degli ultimi anni), oltre alla manifattura rallenta anche il settore dei servizi.

“Procederemo con cautela” ha detto Powell nelle sue conclusioni, i mercati scontano una pausa in settembre e anche l’appuntamento di novembre potrebbe essere senza sorprese. Certo, “il lavoro non è ancora finito” recita il mantra del capo della Fed, ma negli Stati Uniti l’inflazione sta rallentando davvero, il +3,2% di luglio è stato superiore al +3% del mese precedente per un effetto base e comunque al di sotto delle aspettative.

La caratteristica della seconda parte dell’anno è l’ulteriore raffreddamento della crescita globale. Nell’Outlook pubblicato in luglio in Fondo Monetario Internazionale ha aggiornato la stima della crescita globale al 3%, “poco più alta di quanto previsto ad aprile, ancora debole rispetto agli standard storici”, gli effetti dell’aumento dei tassi sull’attività economica si fanno sentire.

La Cina, il sorvegliato speciale del 2023, chiuderà probabilmente l’anno con la crescita al di sotto dell’obiettivo governativo del 5% e flirta pericolosamente con la deflazione. Ma non è scritto sulla pietra che sia condannata a diventare il nuovo Giappone, negli ultimi quarant’anni la Cina è diventata una grande economia, non mancano le risorse e le capacità per evitare l’avvitamento deflazionistico.

I governi locali hanno allentato le politiche sul mercato immobiliare, l’obiettivo di breve termine è più la stabilizzazione del mercato che lo stimolo all’economia come nel recente passato, la stabilizzazione è la condizione necessaria per attenuare il panico causato dall’ipervenduto. È anche possibile che la banca centrale agevoli le banche diminuendo il coefficiente di riserva obbligatoria, le banche commerciali detengono poco meno del 70% del debito nazionale e l’85% delle emissioni pubbliche locali.

I problemi della Cina sono di più lungo termine, il lungo ciclo dello sviluppo impetuoso si è interrotto e la Terra di Mezzo si trova a fare i conti con un passaggio strutturale. Per il Fondo Monetario Internazionale le aspettative di crescita nel medio termine sono inferiori al 4%, grossomodo il doppio della crescita che ci si può aspettare nei paesi occidentali, troppo poco per una economia così grande. La demografia registra la costante diminuzione di donne e uomini in età lavorativa, l’enorme quantità di risparmio non è ancora convogliata in consumi e non viene più assorbita dall’economia in rapida crescita come negli ultimi decenni.

I mercati hanno registrato il cambio di passo delle condizioni economiche generali. Nel mese di agosto i listini si sono presi una pausa, lo S&P 500 ha chiuso il mese sotto di quasi due punti percentuali dopo cinque mesi di salita ininterrotta; per il Nasdaq Composite agosto è stato il peggior mese da dicembre e ha messo la parola fine alla migliore performance del primo semestre degli ultimi quarant’anni.

Nella seconda parte dell’anno l’ecosistema finanziario entra in una nuova stagione, la corsa della prima parte ha portato molto in alto le valutazioni, le azioni sono costose e meno interessanti rispetto alle obbligazioni, il premio al rischio è a livelli storicamente bassi

Due parole di chiarimento, al colto pubblico e all’inclita guarnigione, sul concetto di premio al rischio.

Le obbligazioni rappresentano una promessa di pagamento, del flusso di interessi attraverso le cedole e del capitale rimborsato alla scadenza. Sono soggette alle variazioni dei tassi, o al fallimento dell’emittente ma, sostanzialmente, le obbligazioni comportano rischi inferiori a quello delle azioni. Queste ultime rappresentano titoli di proprietà delle aziende, la promessa di partecipazione agli utili, prospettano attese di maggiore remunerazione perché soggette a maggiore incertezza. Il premio al rischio misura e “prezza”, grossomodo, la differenza tra il rendimento “risk-free” e il “rendimento degli utili”, il rapporto tra gli utili previsti e il prezzo dell’azione. Nell’ultimo anno il premio al rischio è crollato, la crescita impetuosa delle azioni ha ridotto il rendimento degli utili mentre tornava a crescere il rendimento delle obbligazioni governative.

Questi livelli di valutazioni e premio al rischio non prospettano spunti elettrizzanti per l’investimento azionario nel breve termine: il decennale americano rende poco più del quattro percento, la liquidità è attorno al 5% (negli Stati Uniti la curva è invertita), il rendimento degli utili a termine dello S&P 500 è attorno a 4,8%, anche i risparmiatori meno esperti sanno fare di calcolo.

Eppure, riconoscere che in termini comparativi nel breve termine le prospettive delle azioni sono modeste non significa liquidare il caso dell’investimento azionario. A distanza di oltre quarant’anni la redazione di Newsweek ancora rimpiange quella copertina dell’agosto 1979 che titolava “La morte delle azioni”, e Bill Gross fu decisamente precipitoso nel 2012 quando dichiarò morto il “culto delle azioni”.

Ribadire il valore dell’investimento azionario nel lungo termine è un cliché piuttosto abusato ma non per questo meno vero.

Nel breve termine, spunti positivi possono venire dall’intelligenza artificiale, le sue prospettive di sviluppo confermano la leadership della tecnologia che ha alimentato, e può ancora alimentare, la marcia dei listini. Le prospettive restano però modeste, le valutazioni suggeriscono cautela nell’esposizione azionaria, le preferenze tattiche, di breve periodo, vanno alle obbligazioni governative e alla liquidità.

Nel lungo termine, come detto sopra, l’esposizione azionaria è fuori discussione, soprattutto nei temi di investimento settoriali sorretti da dinamiche pluri-decennali.

Un possibile rischio, nei prossimi mesi, è che la Fed ritenga il lavoro non concluso e sorprenda i mercati con ulteriori rialzi, Loretta J. Mester, a capo della Fed di Cleveland, ha dichiarato che l’inflazione è ancora troppo alta. L’altro rischio di cui tenere conto è la Cina, alle prese con difficoltà congiunturali (il settore immobiliare) e strutturali (demografia e produttività).

Torneremo a parlarne naturalmente, buona ripartenza a tutte e a tutti.

Fonte: AdvisorWorld.it


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