GAM: L’allentamento delle pressioni inflazionistiche, la discesa del prezzo del petrolio, la possibilità dell’atterraggio morbido per l’economia americana e l’incontro tra Xi e Biden tratteggiano un quadro di ritrovato ottimismo, cesura tra un prima e un dopo.
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A cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR
Scommettere sulla direzione dei tassi e il timing dei tagli resta però un esercizio difficile. Una settimana ricca di novità. Innanzitutto, il consumatore americano è ancora in buona forma, le vendite al dettaglio in ottobre sono state negative per la prima volta da marzo ma meno rispetto alle attese. La stagione degli acquisti di Natale è appena iniziata, solo al termine sapremo quale sarà stata l’intensità del dolore causato dai morsi del più alto costo del denaro.
La notizia della settimana è stata però il rallentamento dell’inflazione. In ottobre i prezzi al consumo negli Stati Uniti sono cresciuti al tasso annualizzato di 3,2%, meno delle previsioni e in marcato rallentamento rispetto al 3,7% di settembre. La scadenza del titolo a due anni, più sensibile ai movimenti di breve termine, è scesa di circa venti punti base, il titolo decennale è sceso a 4,4% prima di riprendere qualche punto. Senza esitazioni la reazione dei listini, lo S&P 500 è salito di 1,9%, il Nasdaq di 2,4% L’inflazione sembra meno “appiccicosa” e per la Federal Reserve sarà più facile “schiumare la pista”, scrive Bloomberg, si sono pressoché azzerate le possibilità che i responsabili politici della Fed alzino i tassi nella riunione del mese prossimo.
Tenendo conto delle dinamiche dell’aumento dei prezzi e dell’intervallo temporale necessario per far arrivare al sistema gli impulsi della politica monetaria, c’è chi scommette che nel 2024 i tagli dei tassi negli Stati Uniti saranno di un intero punto percentuale. Altri sono più prudenti, prefigurano un inizio dell’inversione dei tassi più tardivo e un minor numero di riduzioni. I prezzi correnti dei Fed Funds scontano tagli tra 50 e 75 punti base nel corso dei prossimi dodici mesi. Il mercato sembra considerare, nei mesi a venire, una certa comunanza di prospettive su aree economiche che pure presentano asimmetrie e diversità: questo è un motivo di cautela perché non stiamo attraversando un ciclo economico tipico, le differenze tra Stati Uniti, Gran Bretagna ed Europa non giustificano le medesime aspettative. Negli ultimi giorni le obbligazioni hanno rapidamente recuperato terreno, vale però la pena considerare ciò che Powell ha effettivamente detto ovvero la possibilità di essere fuorviati da pochi mesi di dati e di dichiarare vittoria troppo presto.
È comunque possibile che le ultime due settimane rappresentino la cesura tra un prima e un dopo, le pressioni inflazionistiche si allentano, i dati sembrano confermare l’ipotesi dell’atterraggio morbido e le scommesse degli operatori riguardano la frequenza e l’ampiezza dei tagli dei tassi che la Fed dovrà disporre il prossimo anno. Soprattutto, c’è stato l’allentamento delle tensioni tra Stati Uniti e Cina. L’incontro tra Joe Biden e Xi Jinping è stato l’evento più rilevante e più atteso per le ampie ricadute politiche ed economiche. Negli ultimi quattro decenni Cina e Stati Uniti hanno prosperato in una relazione di reciproca dipendenza. La Cina produceva manufatti che gli americani compravano per pochi soldi, con i dollari incassati il governo di Pechino affrancava dalla povertà milioni di persone e acquistava Treasury, i tassi di interesse restavano bassi consentendo agli americani di comprare sempre più prodotti cinesi …
“Noi americani costruiamo sempre più negozi, pieni di oggetti costruiti in sempre più numerose fabbriche cinesi, pagati con dollari con cui i cinesi comprano sempre più titoli emessi dal Tesoro americano, così da consentire alla Federal Reserve di allargare il credito, così gli americani possono continuare a comprare case e tutti quegli oggetti costruiti in Cina, pagati con dollari utilizzati per comprare altri titoli del Tesoro americano che creano ancora più credito […]”. Così Thomas Friedman descriveva nelle prime pagine del suo “Il mondo è piatto” la condizione di mutuo interesse tra le due maggiori economie del mondo. La guerra dei dazi di Trump portò alla luce tensioni che, per quanto tenute a livelli di bassa intensità, erano già presenti, l’amministrazione Biden non ha modificato l’atteggiamento verso la Cina, l’abbattimento del pallone spia lo scorso febbraio ha fatto precipitare anche le relazioni diplomatiche, ai minimi degli ultimi cinquant’anni. Biden ha irritato Pechino sottolineando gli “enormi problemi” che secondo lui la Cina stava affrontando dal punto di vista economico e Xi Jinping criticava con parole dure la strategia di “accerchiamento” messa in atto dagli Stati Uniti con il rafforzamento delle alleanze nella regione Asia-Pacifico.
A San Francisco i due presidenti hanno fatto buon viso a cattivo gioco, le ragioni di dissenso e di contrasto restano ma la diplomazia muscolare è stata smussata, sono state tenute in considerazione le ragioni degli interessi di entrambi i paesi. Lo aveva detto chiaro Janet Yellen mesi fa, il disaccoppiamento economico appartiene alla retorica politica, non è una strada percorribile e neppure desiderabile. Per le società americane e occidentali la Cina rappresenta un mercato dalle potenzialità enormi e la deglobalizzazione è più facile a dirsi che a farsi, è complicato trovare altrove le competenze acquisite in quarant’anni di manifattura, tantomeno replicare le economie di scala degli impianti cinesi.
Dal canto suo, Xi Jinping ha l’ambizione di riportare il paese allo status imperiale che ebbe tra il XVI e l’inizio del XIX secolo, un disegno per il quale lo sviluppo economico è indispensabile. Il sentiero di espansione però si è interrotto, nel 2022 la quota della Cina nell’economia mondiale si è leggermente ridotta e quest’anno si ridurrà ancora di più, scendendo al 17%. Fino a pochi mesi fa il presidente cinese parlava espressamente del diritto della Cina a riprendere il suo posto nel mondo e nella storia, nulla avrebbe potuto arrestare quel processo. Nei colloqui di mercoledì scorso Xi ha invece dimostrato pragmatismo e moderazione, sa che le prospettive di crescita sono più favorevoli ad altri paesi emergenti, India, Indonesia, Brasile, Messico, la Cina ha ancora bisogno degli Stati Uniti e dei partner commerciali occidentali per alimentare le sue ambizioni.
La leadership comunista vede anche con chiarezza che il rallentamento economico potrebbe incrinare il “Grande Patto” tacitamente sancito con la pubblica opinione cinese: crescita economica, ricchezza, prosperità comune in cambio della rinuncia ai diritti civili. Non disturbate il manovratore e lui, in cambio, vi farà ricchi. La “prosperità comune” è stata l’idea guida del governo cinese nel 2021 ma appartiene alla storia della Cina moderna, apparve per la prima volta in un articolo del Quotidiano del Popolo nel settembre 1953 e poche settimane dopo, il 12 dicembre 1953, nel titolo di un articolo dello stesso giornale “La via del socialismo è la via della prosperità comune”. La locuzione venne ripresa negli anni Ottanta da Deng Xiaoping che metteva in evidenza come la prosperità comune passasse dall’accelerazione dello sviluppo delle forze produttive, dalla realizzazione delle quattro modernizzazioni e dall’autorizzazione ad alcune persone e ad alcune zone di arricchirsi, gli altri si sarebbero arricchiti in seguito.
Sotto la guida di Xi Jinping l’enfasi sulla prosperità comune è aumentata ma è diventato più difficile onorare l’impegno, al rallentamento dell’attività economica si sono affiancati i flussi in uscita degli investimenti esteri. Nel terzo trimestre sono usciti dal paese quasi dodici miliardi di dollari, primo dato negativo dal 1998, quando si cominciò a compilare la statistica. Il deflusso degli investimenti diretti riflette il deterioramento delle prospettive economiche del paese e, soprattutto, la minore fiducia degli investitori esteri nel modello economico plasmato dal governo.
Negli ultimi mesi il governo e la banca centrale cinesi hanno diminuito l’enorme disponibilità di Treasury. Gli investitori domestici stanno vendendo obbligazioni e azioni americane con volumi non più visti negli ultimi anni. Le vendite sono concentrate soprattutto nei titoli del Tesoro, il saldo dei Treasury detenuti dalla Cina ammontava a 805,4 miliardi di dollari ad agosto, un calo del 40% rispetto a un decennio prima, secondo i dati del Dipartimento del Tesoro americano.
Le vendite sono state innescate dalle difficoltà finanziarie interne e dalla necessità di difendere le ragioni del cambio dello yuan, ai minimi contro il dollaro dal 2008, ma sono anche il segnale al Tesoro americano delle possibili conseguenze di un massiccio piano di vendite. Un’altra risposta cinese alle misure punitive di Washington è stata l’accelerazione nello sviluppo tecnologico, la creazione di capacità produttive sulle componenti ad alta tecnologia che gli Stati Uniti non intendono più fornire. Nonostante le dichiarazioni di buona volontà e il ripristino di linee di comunicazione dirette, impossibile prevedere se nel breve termine ci saranno concreti passi in avanti, per il momento prendiamo la parte piena del bicchiere, le relazioni tra Cina e Stati Uniti sono tornate sotto controllo. Il “take away” economico del vertice è l’ammissione, più o meno a denti stretti, della reciproca dipendenza e della necessità di accordi conseguenti, la frase di Xi “il mondo è abbastanza grande perché i due Paesi possano avere successo” è una dichiarazione di sostegno a politiche commerciali più aperte in opposizione alle politiche dei dazi, e di volontà nel proseguire nella costruzione di legami commerciali con altri paesi. Più o meno nelle stesse ore dell’incontro di San Francisco, il leader iraniano Khamenei comunicava a uno dei capi di Hamas che il suo paese non sarebbe entrato nel conflitto. La scelta del momento non è stata casuale, un paese amico di Hamas ha atteso oltre un mese dalla strage del 7 ottobre per far sapere all’alleato e al mondo il non coinvolgimento e lo ha fatto proprio nel giorno dell’incontro di Biden con Xi Jinping. La dichiarazione ha fatto scendere le paure dell’escalation e ha contribuito all’allentamento delle tensioni politiche.
Abbiamo dunque notizie positive dal lato della politica e da quello dell’economia, un prezzo del petrolio più basso e lancette del barometro dei mercati che si spostano verso il bel tempo. La combinazione di atterraggio morbido, inflazione in discesa e attese di tagli dei tassi sembrano però spazzare via troppo in fretta le incertezze e alimentano un ottimismo eccessivo. “Il ping pong narrativo è tutt’altro che finito” scrive Mohamed El Erian “non ricordo un momento in cui le previsioni di consenso abbiano avuto così tanta difficoltà ad attenersi per più di qualche settimana a una narrazione economica dominante”. Come L’Alpha e il Beta raccomanda da tempo, la diversificazione delle fonti di rischio costituisce il miglior antidoto alle sorprese.
Fonte: InvestmentWorld.it
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