GAM: Nella settimana della Fed i mercati hanno amplificato il nervosismo mentre l’appuntamento con l’aumento dei tassi si avvicina anche per la Banca Centrale Europea, alle prese con i rischi recessivi e i differenziali di rendimento tra i diversi paesi dell’unione monetaria. Sui mercati finanziari il conto più salato lo pagano le obbligazioni
A cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR
È stata la settimana della Fed. La flessione del Pil americano nel primo trimestre non ha modificato la rotta tracciata, Powell ha consegnato quanto aveva anticipato con una chiarezza insolita per i banchieri centrali, l’aumento è stato di cinquanta punti base, più del consueto quarto di punto, meno dei tre quarti che James Bullard della Fed di St. Louis non aveva escluso. L’accelerazione del programma di riduzione del bilancio corroborerà la normalizzazione dei tassi.
Quando si muove la Fed nessun luogo è sicuro, la reazione dei mercati è stata straordinaria, nel senso più letterale del termine. A Powell, che sgomberava il campo da possibili aumenti di tre quarti di punto, l’indice S&P 500 ha risposto in un primo momento con un entusiasmante +3%. Non fu vera gloria, il giorno dopo 5 maggio, valutando meglio la determinazione del capo della Fed nella lotta all’inflazione, l’indice della borsa americana è crollato del -3,6%. Un’escursione ampia che gli appassionati delle statistiche incastonano tra gli eventi rari. Ancora più ampia l’oscillazione del Nasdaq, dal +3% del mercoledì al -5% del giovedì.
Si sono mosse anche altre banche centrali, la Banca d’Inghilterra ha deliberato il quarto aumento consecutivo e ha portato il tasso ufficiale a 1%, un livello non visto dal 2009. La Reserve Bank australiana ha disposto il suo primo aumento dopo undici anni, hanno aumentato i tassi la banca centrale indiana e quella polacca. La banca centrale norvegese ha rimandato l’aumento alla riunione di giugno. Un filotto di aumenti che avvicina l’appuntamento con i tassi anche per la Banca Centrale Europea che si sta acconciando a mettere la parola fine agli otto anni di tassi negativi.
L’inflazione ha sempre innervosito i tedeschi non tanto per la memoria dell’iperinflazione degli anni Venti quanto perché l’inflazione erode il valore dei loro crediti netti con il mondo. Ma a quota 7,5%, anche il capo economista della banca Philip Lane e il membro italiano del Board Fabio Panetta cominciano a dichiararsi più disponibili all’aumento dei tassi nei prossimi mesi. Rispetto ai loro colleghi americani o inglesi i banchieri di Francoforte devono fare i conti con due questioni peculiari dell’Eurozona.
La prima è relativa ai rischi di recessione, in marzo la produzione industriale in Germania è crollata di quasi il 4%, molto oltre le attese, per la guerra in Ucraina e per la paralisi dei porti cinesi. La vicinanza alla Russia, la debolezza degli ordini nel settore manifatturiero, le tensioni sui prezzi dell’energia incrementano per l’Eurozona le probabilità di recessione.
L’altra questione sul tavolo del Board della banca centrale è il differenziale di rendimento tra i vari paesi dell’Unione. Quello tra le scadenze decennali italiana e tedesca, barometro attentamente seguito dai mercati, ha superato la soglia dei 200 punti, la diminuzione degli acquisti metterebbe pressione sul debito italiano e degli altri paesi più deboli.
Il processo di normalizzazione dei tassi è l’effetto finanziario più evidente del passaggio tra un’epoca di globalizzazione e deflazione durata quarant’anni (vedi “La vita comincia a quarant’anni”, L’Alpha e il Beta del 2.5.2022), e un nuovo assetto globale che sta prendendo forma in questi mesi e che definirà gli equilibri politici ed economici per i prossimi decenni. Il reddito fisso è stato trascinato nella polvere con le azioni, il Treasury a dieci anni ha superato la soglia, anche psicologica, del 3%, lo stesso ha fatto il BTP italiano. “La piscina delle obbligazioni a rendimento negativo sta evaporando” scrive l’Economist.
Le sedute degli ultimi giorni rendono meno frettolosa la corsa a comprare sulla correzione, gli acronimi che ci hanno accompagnato negli ultimi anni si sbiadiscono, non c’è fretta nel correre a comprare sulle debolezze (BTD, “Buy the Dip”), e nessuno pensa di perdersi il meglio della festa (FOMO, “Fear of Missing Out”). Resiste il TINA, “There is No Alternative”, perché i tassi reali sono ancora negativi o bassi e la loro inversione costituisce una difficoltà più seria per il reddito fisso, le vendite massicce sul Treasury riverberano le eco del 1994 ma non è stato risparmiato nessuno degli altri segmenti obbligazionari.
In questi anni classi di attivo come le obbligazioni ad alto rendimento o il debito societario emergente hanno beneficiato della ricerca di rendimento da parte degli investitori in fuga dalla carta governativa, ma l’aumento dei tassi cambia e complica le prospettive anche nei segmenti a maggior rendimento. I tassi più alti, il loro maggior rischio e i costi di copertura del rischio valutario si combinano con lo scenario globale di rallentamento e possibile recessione.
Un altro, evidente sintomo del passaggio d’epoca, dell’uscita dalla grande fase deflazionistica, è la forza del dollaro. Senza giri di parole, il Financial Times scrive di “guerra valutaria all’incontrario”: nel 2010 il ministro delle finanze brasiliano Guido Mantega denunciava le politiche dei tassi bassi e dell’indebolimento delle ragioni del cambio delle economie avanzate come una “guerra valutaria” a danno della competitività internazionale delle economie più deboli.
Ora sta accadendo il contrario: nel passaggio dalla deflazione all’inflazione le banche centrali si affrettano a riprendere il controllo della corsa dei prezzi con “il metodo Volcker”, il freno all’inflazione fa premio sull’attività economica. Ragioni di cambio più forti sono un ostacolo alla competitività negli scambi internazionali ma fanno la loro parte nel raffreddare la domanda. Il dollaro, che conferma la sua primazia di valuta di riferimento, è ai livelli più alti degli ultimi vent’anni ma nella “guerra valutaria all’incontrario” nessuno vuole una valuta debole che importi inflazione: gli effetti del dollaro forte sulle valute nazionali sono una variabile di cui le banche centrali devono tener conto nelle loro azioni sui tassi.
L’inflazione, i tassi in salita, i blocchi nei porti cinesi, il confronto nelle banche centrali tra falchi e colombe, tutti elementi che concorrono a definire il profilo delle regole del gioco nei prossimi mesi. Ma le carte sono al di fuori dell’ambito economico, tutto è avvolto e condizionato dall’incertezza politica: è probabile che “il momento cruciale sarà in autunno” scrive David Dowsett di GAM Investments, domina la prudenza e, aggiunge “non è il momento di ripiegare, credo che la strategia giusta sia quella di aggiungere cautamente sulla debolezza”.
L’ansia del presente avvertita dai risparmiatori è più che giustificata. Difficile evitare la “cortomiranza” di cui sta scrivendo il professor Paolo Legrenzi nelle Lezioni “I soldi in testa” di queste settimane. Per superare lo sconforto, o almeno cercare di dominarlo, è necessario guardare oltre: oltre la guerra, di cui tutti invochiamo la rapida fine, oltre l’eccezionalità di questa fase, oltre gli attuali livelli di inflazione destinata a ritracciare.
La politica monetaria restrittiva raffredda l’accesso al credito e nelle carte delle prossime riunioni del FOMC ci sono due ulteriori incrementi di cinquanta punti base; nei prossimi mesi avremo maggior chiarezza nello scenario economico, si dipanerà l’orientamento delle banche centrali e si profileranno meglio gli equilibri tra falchi e colombe.
A James Bullard, che invita i suoi colleghi a non escludere aumenti anche di tre quarti di punto rispondono indirettamene in molti, Bill Gross tra questi, che vedono nei tassi superiori al 3% rischi di tenuta per l’economia americana, “ci siamo abituati a tassi sempre più bassi e qualsiasi cosa più alta romperà il mercato immobiliare. Il recupero del mercato del lavoro negli Stati Uniti raffredderà le tensioni salariali” ha detto Gross.
L’Institute for International Finance segnala che il debito societario globale non finanziario è di 12,5 trilioni di dollari superiore ai livelli pre-Covid, quasi novanta trilioni di dollari che equivalgono grossomodo al Pil mondiale e che dopo decenni di tassi prossimi allo zero sono estremamente vulnerabili al loro movimento di rialzo. La preferenza relativa verso le azioni resta condizionata dalle difficoltà delle obbligazioni e compensata con l’esposizione a strategie di protezione, la posizione più avanzata della banca centrale americana rispetto a quella europea corrobora la preferenza relativa agli Stati Uniti e al dollaro, che beneficia anche delle sue caratteristiche difensive nelle fasi di incertezza o pessimismo.
Anche nei momenti di maggiore incertezza le scelte di investimento devono essere poste nella prospettiva del lungo termine: “il più grande ostacolo alla lungimiranza è la struttura della paura ancorata nei nostri cervelli” scrive il professor Legrenzi che ricorda come il trascorrere del tempo trasforma l’incertezza in rischio: “il passaggio dalla cortomiranza alla lungimiranza permette di strutturare gli ambienti di vita in modo da renderli prevedibili e quindi più sicuri”.
Fonte: AdvisorWorld.it
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