GAM Quasi Amici. 2001-2021, sono passati vent’anni dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione del Commercio Internazionale,
A cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR
un evento che ha cambiato la storia contemporanea: la Terra di Mezzo è partner commerciale e avversario strategico che vuole concorrere alla riscrittura delle regole dell’ordine globale. I deficit commerciali e gli investimenti diretti in Cina smentiscono la narrativa della deglobalizzazione e la ripresa economica cinese sarà uno dei temi più interessanti del 2022
“Se credete in un futuro di più grande apertura e libertà per il popolo della Cina … se credete in un futuro di più grande prosperità per il popolo americano, voi dovrete essere certamente a favore di questo accordo… io farò tutto ciò che è in mio potere per convincere il Congresso e il popolo americano a sostenerlo”.
Così si esprimeva nel marzo del 2000 il presidente Bill Clinton per convincere il Congresso e la pubblica opinione americana a sostenere l’ingresso della Cina nel WTO, l’Organizzazione del Commercio Internazionale.
L’obiettivo dell’Amministrazione Clinton era ambizioso, allargare la globalizzazione alla Cina avrebbe voluto dire aprire quell’enorme paese al commercio globale, alla trasparenza, alla prosperità. Era ambiziosa anche la scommessa strategica di lungo termine: più intense relazioni commerciali con gli altri paesi, maggiore prosperità e progressive libertà economiche avrebbero comportato, con il tempo, maggiori libertà civili e il graduale approdo a un sistema di governo più orientato alla democrazia.
Sono passati vent’anni dall’11 dicembre 2001, data iconica cha ha cambiato la storia recente, la scommessa dell’Occidente di un graduale assorbimento della Cina nel novero delle democrazie è stata persa, le libertà economiche non hanno innescato alcun processo virtuoso verso le libertà civili, la presenza del governo cinese nella vita dei cittadini si è fatta molto più pervasiva, il controllo del partito comunista sulle società e sull’economia è ferreo.
Per ottenere l’ammissione alla World Trade Organization, il club del libero commercio internazionale, la Cina fu costretta ad aprire, sia pure parzialmente, la sua economia e abbattere numerose barriere commerciali. Vennero eliminate oltre settemila tariffe e modificate centinaia di quote contingentate applicate alle importazioni.
Ma il pay-off è stato enorme: nel 2001 la Cina era il quarto maggior paese esportatore, nel 2009 era già diventato il primo. La crescita delle esportazioni diede a sua volta una formidabile spinta al PIL, circa il 13% di quello americano nel 2001, prossimo al 73% vent’anni dopo. Anche il reddito pro[1]capite è rapidamente aumentato, dai livelli del Sudan nel 2001 a quelli del Messico nel 2021; uno degli obiettivi della “prosperità comune” di Xi Jinping è di incrementarlo ulteriormente portando la classe media al 70% della popolazione.
La crescita impetuosa della Cina e le dimensioni della sua economia hanno dato origine anche a forti squilibri. Il mondo si divide tra paesi in surplus commerciale stabile, Cina e Germania su tutti, e paesi in strutturale sbilancio commerciale, ad esempio Stati Uniti e Gran Bretagna. Nel 2020 il deficit commerciale degli Stati Uniti verso la Cina era attorno ai 310 miliardi di dollari, in diminuzione, a causa della pandemia, dai 419 miliardi di dollari del 2018.
In vent’anni la Cina è diventata il partner commerciale più importante dell’Occidente e, nello stesso tempo, avversario strategico; ha massimizzato i vantaggi della partecipazione al commercio internazionale non sempre rispettando le regole del gioco, ad esempio sulle licenze e sulle proprietà intellettuali. I paesi occidentali hanno buone ragioni per chiedere alla Cina di rispettare le regole del WTO nella sua interezza, rinunciando al globalismo selettivo di quali siano le regole più convenienti e quali invece quelle aggirabili.
Ma anche la Cina ha qualche ragione quando denuncia che l’Ordine Liberale Internazionale è fondato su regole, valori e prassi definite dagli Stati Uniti e tagliate sui propri interessi.
Il governo cinese ha trasformato lo straordinario potere economico in strumento di pressione politica, le dispute diplomatiche e commerciali che dividono i “quasi amici” derivano dalla grande distanza sulla visione strategica del mondo. Ora la Cina, potenza emergente sempre più sicura del proprio status, sfida il “monopolio delle regole”, il dividendo incassato dagli Stati Uniti con la fine della guerra fredda.
“Nascondi la tua forza, aspetta il tuo turno” diceva Deng. Xi Jinping, primo leader con un potere analogo a quello di Mao e dello stesso Deng, ritiene che il turno sia arrivato e non ci sia più bisogno di nascondere la propria forza, Pechino ha idee diverse sulla governance globale, sulle relazioni diplomatiche, sul ruolo delle istituzioni sovranazionali. La Cina contrappone il proprio modello sociale e di governo a quello degli ordinamenti liberal-democratici occidentali, vuole sedere allo stesso tavolo e, con pari dignità di potenza planetaria, concorrere a definire le nuove regole dell’ordine globale.
Le diadi democrazia-oligarchia, mercato-dirigismo, stato[1]individuo continueranno a dividere gli Stati Uniti e la Cina, due paesi che sono invece obbligati a cooperare al contrasto del cambiamento climatico prima ancora che al disegno dei nuovi equilibri politici globali
Tra le grandi differenze tra l’ordinamento cinese e quello dei governi occidentali c’è la diversa interpretazione del primato della legge. In Cina non si è mai affermato il criterio del “governo secondo la legge”, caposaldo degli ordinamenti occidentali dove la legge viene prima del re e ne limita i desideri. In Cina vale il criterio del “governo con la legge”, per il quale “il sistema legale è uno strumento utile ad assicurare al Partito Comunista la primazia e i tribunali sono i luoghi dove il volere del governo viene imposto” scrive Michael Schuman su The Atlantic “lo stato può fare qualsiasi cosa e poi cercare nella giurisprudenza gli opportuni sostegni”.
Gli ordinamenti orientati al principio del “governo con la legge” escludono i meccanismi del libero mercato, le crisi aziendali si sviluppano in modi del tutto diversi rispetto a paesi dove vige il principio del “governo secondo la legge”. Non può esserci nessun “momento Minsky” quando le leve dell’economia sono mosse dai governi, le analogie tra la vicenda Evergrande e il suo debito da 300 miliardi di dollari con il fallimento Lehman, con la crisi finanziaria del 2008 o con il crollo del Long-Term Capital Management sono superficiali, relative all’uso disinvolto della leva finanziaria e all’eccessiva valutazione degli asset. Le analogie finiscono qui, frantumate dalle peculiarità del sistema economico cinese, guidato dal governo e non dalle regole del libero mercato.
Il gigante dell’immobiliare non ha rispettato il pagamento di 82 milioni di dollari delle cedole nella scadenza di dicembre, grande è la confusione sotto il cielo ma la situazione è tutt’altro che eccellente. Fitch ha dichiarato Evergrande in condizioni di default, le azioni sono in caduta libera e i molti cittadini cinesi che hanno versato anticipi per l’acquisto della casa rischiano di perdere il loro denaro.
La reazione del mercato è stata nervosa: gli investimenti massicci nel debito societario cinese erano stati sostenuti anche dal retropensiero che la proprietà pubblica avrebbe scongiurato il rischio default. Non è andata così, i casi Evergrande e Kaisa, un’altra grande società immobiliare che non ha onorato 400 milioni di dollari di cedole, non sono i primi casi di default ma sono certamente i più importanti per dimensioni; complessivamente le due società rappresentano circa il 15% delle emissioni del settore immobiliare.
Ma siamo in Cina, gli obbligazionisti non hanno le stesse possibilità di portare in tribunale le società inadempienti e costringerle a forme di riorganizzazione; dall’altra parte, il governo ha stabilito che fenomeni tipici del sistema capitalistico come le bolle finanziarie non possono verificarsi in un sistema socialista né tantomeno possono esplodere, non vuole che i default abbiano ripercussioni sul resto del sistema economico e finanziario, vuole evitare un effetto domino che, in un settore come il real estate che vale il 30% dell’economia, avrebbe esiti imprevedibili.
Fallimenti rovinosi e una estesa crisi finanziaria costituirebbero fastidiose pietre d’inciampo nel cammino di Xi verso la riconferma al terzo mandato presidenziale il prossimo anno.
Parimenti, la rovina finanziaria dei clienti di Evergrande e Kaisa e di molti risparmiatori striderebbe con la campagna della “prosperità comune”. Le autorità pianificano default chirurgici e nel frattempo sono arrivate in aiuto le banche pubbliche per le quali la redditività viene dopo l’interesse del sistema economico (siamo in Cina!), hanno acquistato quote della società mentre la Banca del Popolo ha alleggerito i requisiti delle riserve obbligatorie.
Sui timori dell’effetto domino e sulle più severe disposizioni regolatorie le valutazioni dei titoli cinesi erano precipitate ma mentre cresce la percezione che non ci saranno contagi sistemici, i dati macro stanno migliorando, è ripartita la domanda interna e le esportazioni sono migliorate. La cintura sanitaria stesa attorno al settore immobiliare, le misure di alleggerimento della banca centrale e il sostegno del governo all’espansione della classe media costituiscono le premesse di una ripartenza che merita di essere tenuta d’occhio.
I consumi sono un formidabile motore di crescita anche in Cina e “le opportunità più allettanti possono essere trovate tra le ‘stelle nascenti’ nel segmento delle mid-cap” scrive Jian Shi Cortesi di GAM Investments “perché sono le beneficiarie delle nuove disposizioni anti-monopolio”.
Uno degli aspetti centrali del nuovo piano quinquennale è la formazione di un contesto di più equa competizione commerciale. Non si tratta di una questione ideologica ma di pragmatica concretezza: le società private creano quasi il 90% dei nuovi posti di lavoro, favorire il loro sviluppo, anche a scapito delle grandi SOE pubbliche, è la necessaria pre[1]condizione per realizzare il duplice obiettivo di avere il 70% della popolazione nella classe media da qui a fine decennio e provare a vincere la competizione digitale con gli Stati Uniti.
Al momento, i capitali sembrano ignorare le asprezze e le spigolosità del nuovo corso del governo cinese: con tanti saluti alla narrativa della deglobalizzazione, la Terra di Mezzo continua ad attrarre flussi di denaro in investimenti diretti. Secondo i dati della American Chamber of Commerce, nel corso di quest’anno quasi il 60% delle grandi società americane ha riportato un incremento del 30% degli investimenti in Cina rispetto al 2020.
Vale lo stesso per gli investimenti finanziari, nel 2020 i portafogli americani, istituzionali e retail, erano esposti alle azioni e obbligazioni cinesi per complessivi 1,2 miliardi di dollari, erano 765 miliardi nel 2017. I flussi di denaro sono stati aiutati dall’incremento del peso della Cina negli indici globali e locali e dai rendimenti delle sue obbligazioni: un intorno del 3,5%, paragonato al circa 1,5% del decennale americano si presenta come attraente opportunità per denaro che gira il mondo in cerca di rendimento.
In definitiva, per gli investitori sembrano contare di più il supporto del governo al settore privato e alla classe media, gli investimenti nella transizione energetica e nel progresso digitale: sono i pilastri che reggono le attese di sviluppo nel lungo termine e che spiegano l’esposizione alla Cina nella diversificazione del portafoglio. La ripresa economica della Cina si rifletterà anche sulle economie emergenti dell’area, favorite dai fondamentali e da valutazioni a loro volta interessanti.
Se la ripresa dell’economia in Cina continuerà sul registro delle ultime settimane potremo assistere a un re-rating delle azioni dell’area: le valutazioni straordinariamente a buon mercato della borsa cinese e dei listini asiatici costituiranno uno dei temi di investimento più attraenti del nuovo anno.
Fonte: AdvisorWorld.it
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