Perché i prezzi bassi spaventano il mercato?…
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Andrea De Gaetano – Senior Portfolio Manager – MC Capital Ltd
Negli ultimi 75 anni, gran parte delle crisi economiche è stata preceduta da un’impennata dei prezzi del petrolio. Oggi, invece, il calo del prezzo del petrolio, sceso di circa il 70% in due anni, fa tremare l’economia mondiale.
A partire dal secolo scorso, l’indipendenza energetica è stata uno dei temi portanti della politica internazionale. Fra la fine del 1800 e gli inizi del 1900 la richiesta di combustibili liquidi aumentò rapidamente e il baricentro energetico iniziò a spostarsi dal triangolo del carbone (Francia, Germania, Inghilterra), ai Paesi petroliferi.
Il petrolio è stato in molte occasioni al centro di vicende belliche.
La carenza di petrolio spinse la Germania di Hitler a investire grandi risorse nella produzione di carburanti sintetici e nell’idrogenazione del carbone, per ottenere benzina, che consentì di rifornire i mezzi militari durante l’invasione della Francia e della Polonia, senza dover dipendere dal petrolio del Medio Oriente, sotto controllo franco-britannico. I giacimenti petroliferi del Caucaso e di Baku, nell’Azerbaigian, erano uno dei principali obiettivi dell’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica (allora alleati), nel 1941.
Le sorti della Seconda Guerra Mondiale furono segnate dalla battaglia di Stalingrado, tramonto del sogno tedesco sul petrolio del Caucaso, e dalla disfatta tedesca dell’Afrikakorps di Rommel, rimasta senza benzina a El Alamein.
Il Giappone, più previdente della Germania, già nel 1931 aveva invaso la Manciuria, ricca di scisti bituminosi utili per la fabbricazione di benzina (uno “shale oil” ante litteram). Dopo l’invasione nipponica dell’Indocina nel 1941, USA, Inghilterra e Olanda decisero l’embargo petrolifero contro il Giappone che reagì con l’attacco a sorpresa di Pearl Habour. E dal 1942 il Giappone si impadroniva di giacimenti petroliferi della Royal Dutch Shell nelle “Indie Olandesi”, in Indonesia.
Tra i primi anni ’30 e l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, i prezzi del petrolio quasi raddoppiarono da 0,65 dollari al barile del 1931 a 1,20 nel 1943. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’andamento del prezzo del petrolio fu influenzato dalle numerose guerre arabo-israeliane. Nel 1948, con la proclamazione del moderno Stato di Israele. Nel 1956 con la crisi del Canale di Suez tra Egitto e Israele con l’intervento di Francia e Inghilterra. E nuovamente con le guerre arabo-israeliane del 1967 e del 1973 (Yom Kippur) che culminò con una grave crisi energetica, dopo che i Paesi dell’OPEC, schieratisi a favore di Egitto e Siria, raddoppiarono i prezzi del petrolio e diminuirono del 25% le esportazioni.
In quest’occasione in particolare, l’impennata del prezzo del petrolio generò una fase di contrazione economica e scatenò una forte turbolenza sui mercati finanziari, con Borse in discesa.
Nel 1986 si verificò una situazione simile a quella attuale, legata a un eccesso di produzione di petrolio da parte dell’Arabia Saudita. Il prezzo del barile scese da 30 a 11 dollari. Dopo una breve fase di assestamento, le Borse, lusingate dalle prospettive rosee dell’energia a basso costo per le aziende, iniziarono un rally selvaggio culminato nel 1987. Tre anni dopo, la tensione geopolitica prima della Guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein fece schizzare da 15 a 39 dollari al barile in tre mesi, tra luglio e settembre 1990. Il mercato aveva scontato tutto in anticipo e, scoppiata la guerra, i prezzi del petrolio ripiombarono a 17 dollari al barile nei 4 mesi successivi.
La crisi del 1997 sui mercati Asiatici, le “Tigri Asiatiche”, seguita dalla crisi Russa del 1998, causò una contrazione della domanda e conseguente declino dei prezzi del petrolio che scesero da 25 dollari al barile del 1997 a 10 dollari di fine 1998. Ancora una volta i prezzi dell’energia a basso costo alimentarono il rally di Borsa che culminò con la bolla internet del 2000.
Il decollo dell’economia cinese contribuì nel frattempo a far lievitare i prezzi del petrolio da 10 dollari del 1998 a 147 dollari picco assoluto del luglio 2008. Salita che ebbe una sola pausa significativa tra il 2006 e il 2007 con il petrolio che passò da 76 a 50 dollari al barile. L’ascesa stellare del petrolio, quanto la sua discesa ancor più spettacolare nei mesi successivi, da 147 dollari di luglio 2008 a 32,4 dollari nel dicembre dello stesso anno, dovevano far capire che i mercati erano cambiati. Certo, i fondamentali valgono sempre, ma l’effetto combinato di sistemi di trading algoritmico e di un mondo sempre più interconnesso fa da cassa da risonanza, amplificando le oscillazioni sui mercati. Pochi mesi dopo il collasso delle materie prime e del petrolio, si verificarono, tra ottobre 2008 e marzo 2009 i minimi dei mercati azionari, massimi dei Titoli di Stato, con la nuova politica dei tassi d’interesse azzerati.
Da febbraio 2009 i prezzi del petrolio si risollevarono dai minimi, insieme al cambio Euro/Dollaro USA e alle materie prime, passando da area 30 dollari al barile fino alla soglia di 115 di maggio 2011.
Dal 2014 a oggi, la storia è nota. Un nuovo collasso fino ai minimi odierni in area 26 dollari al barile.
Nelle ultime settimane, Paesi le cui esportazioni contano per il 95% sul petrolio, come Nigeria e Azerbaigian hanno chiesto aiuto al Fondo Monetario Internazionale. Il crollo dei prezzi del petrolio ha distrutto le loro economie nazionali, costringendo l’Azerbaigian ad abbandonare il regime di cambio fisso contro dollaro della valuta nazionale, il manat, avendo speso più di metà delle riserve valutarie da dicembre a oggi.
L’Azerbaigian fornisce il 17% del petrolio necessario al fabbisogno energetico italiano. La Nigeria produce oltre due milioni e trecentomila barili al giorno, quasi pari al consumo giornaliero della Germania. Per non parlare del Venezuela, altro Paese che dipende quasi interamente dall’esportazione di petrolio, dove l’inflazione ha raggiunto livelli a 3 cifre. Situazione poco allegra anche per Paesi produttori di petrolio come Ecuador o Brasile, caduto nella peggior recessione economica da più di un secolo. Anche la ricca Arabia Saudita ha dovuto finanziarsi con emissioni di prestiti obbligazionari, per far fronte ai mancati proventi per il calo dei prezzi del petrolio.
Negli ultimi anni, le economie emergenti hanno acquisito un peso sempre maggiore nelle economie mondiale. Per questo, una recessione prolungata nei Paesi emergenti, sbocco per l’export dei Paesi sviluppati, già saturi, sarebbe devastante. Se gli Stati sono in difficoltà, figuriamoci le aziende del settore petrolifero ed energetico. Un esempio degli ultimi giorni, Chesapeake Energy, secondo maggior produttore USA di gas naturale, oltre che di petrolio, che ha perso il 90% di capitalizzazione di Borsa nell’ultimo anno e i cui bond sono passati da 100 a 27 negli ultimi sei mesi.
Come tutto il mondo, le società del settore energetico sono fortemente indebitate e, se i margini calano come è avvenuto negli ultimi due anni, rischiano di saltare, mettendo ovviamente in difficoltà le banche che le hanno finanziate. Se a ciò aggiungiamo l’incertezzadei derivati finanziari sul settore…..Ecco perché il calo del petrolio fa paura!
Operativamente e per concludere
Quando arrivano le brutte notizie, arrivano tutte insieme. I mercati, emotivi, stanno evidentemente esagerando nel reagire alle notizie, certamente preoccupanti, ma forse non così catastrofiche come sembra. L’Italia è stata uno dei bersagli prediletti dei ribassisti che hanno visto un’opportunità nell’indice azionario italiano, carico di banche e sofferenze oltre che di petroliferi. Difficile dire se il catalizzatore siano stati gli screzi diplomatici tra Italia e Bruxelles, la cattiva gestione dei migranti da parte della Germania, il periodo di quiete nell’interregno gennaio-marzo tra la prima e la secondo riunione della BCE, il tracollo del titolo Deutsche Bank con l’impennata dei credit default swap maggiore dal 2012, che ha ricordato il caso Lehman. O semplicemente veder che siamo in pieno inverno e non nevica!
Fatto sta che si è verificato il peggior inizio anno dal 2008.
Gli indici azionari europei hanno rotto al ribasso la tendenza rialzista di lungo periodo che li sosteneva da tempo, ma la velocità del movimento è tale da rendere molto probabile un forte rimbalzo tecnico, già dalla seconda metà febbraio. Il Presidente Mario Draghi è stato molto chiaro: farà tutto il possibile! Ci sono grandi aspettative per la riunione BCE del 10 marzo e i ribassisti potrebbero iniziare a ricoprirsi in anticipo.
C’è stata una sovraproduzione di petrolio, ma i consumi sono ancora a livelli record. Nel frattempo, molte aziende hanno ridotto la produzione, tagliando i costi. Basterebbe anche in questo caso un piccolo evento catalizzatore, che potrebbe arrivare da un evento geopolitico come un accordo fra Stati produttori per generare un forte rimbalzo delle quotazioni. I mercati USA sono rimasti molto più alti di quelli europei e, se il ribasso dovesse continuare nel breve, sarebbero a questo punto i prossimi candidati a vedere nuovi minimi.
Euro e Yen, ancor più del Franco Svizzero, hanno reagito come monete rifugio apprezzandosi nei confronti delle altre valute. Area 1,14-1,15 è livello di vendita di breve sul cambio Euro/Dollaro, oltre la quale si vedrebbero obiettivi 1,1650-1,20. Area 1,1020-1,09 livelli di acquisto di breve, con supporto principale ora a 1,06.
Sui Titoli Governativi USA, 1,60% sul decennale, siamo tornati sui rendimenti minimi dal 2012. In Germania, allo 0,19% sul decennale siamo sui minimi dal marzo 2015, appena prima dell’inizio del QE. In questi giorni, abbiamo visto episodi di “panic buying” che potrebbero preludere a un’inversione di tendenza, discesa dei corsi, aumento dei rendimenti. In Giappone, i rendimenti sono negativi fino alle scadenze a 9 anni. Fra gli effetti collaterali del Quantitative Easing giapponese c’è la follia di pagare per prestare denaro a un Paese in zona sismica, costellato di centrali nucleari, col più alto rapporto al mondo fra debito e prodotto interno lordo, il Giappone! Speriamo non succeda anche da noi.
Fonte: BONDWorld.it
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